rime sparse - aliti di vento

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rime sparse

parole
Quando una notizia di cronaca o una sensazione passeggera colpiva la sua sensibilità, Antonio Polimeni non esitava a tradurre in versi le sue sensazioni, attualizzando quello che lui stesso definiva il "versamento totale ed incondizionato dell'anima". Per questo motivo probabilmente, la poetica di Antonio diventa con il tempo sempre più riflesso del totale distacco dalla realtà cui la sua malattia lo costringe. "Senza freni, tutto è un costante moto uniformemente accelerato verso l'abisso, lungo il piano inclinato della mia esistenza...".
Canto deliro
(in occasione del disastro ferroviario al tr. 1932)
** in memoria di Saverio Nania.
Quando la marea
cede il passo agli uragani
e la terra aspramente non demorde
dall'impari rovina
rivoltando le zolle con forza inarrestabile
il cuore si ferma
e geme un lamento, o un fievole richiamo,
imperito e greve d'uomini e di cose
ineguagliabile come un grido non accorto
d'accomandare al tempo.
Lasciate ch'io impetri un canto, non rassegno,
come un docile conflitto inesitato
e perché il cuore non si placa di dolore
Misericordia al mare.
http://www.repubblica.it/online/cronaca/deragliamento/mattina/mattina.html
La sintesi della poetica di Antonio Polimeni sta nella "dicotomia d'abisso e d'infinito afflato". Una continua contrapposizione tra l'abisso della malattia e della solitudine e il desiderio di infinito che solo l'Amore vissuto nella pienezza del trascendente può appagare.

Perentorio
Ho smarrito il cammino tra le stelle,
incerto d'aria, e mille esodi alteri
senza farmi intravedere il fine
divergono il cammino,
aberrando persino il desiderio
d'unico approdo; confonde la memoria
il tempo e le perequazioni ignobili
d'ogni rifuso male,
e il mio destino
sparuto appresso all'impassibile misura,
dicotomia d'abisso e d'infinito afflato.
Guidami la strada.
A sera, un viandante stanco,
posa in opera dell'ultima rovina,
ripone il pane
e ride, e spera, riflesso a luce d'unico emissario
guarda fin dove non arriva il màre.

ENTELECHIA
Tu non vedrai
egloghe di canti e di mortali
fino alla linea bianca che le navi
ripercorrono ogni volta che la terra
si mostra esiziale dell’ultima rovina;
è forma costante ogni dolore
dell’ordegno solitario che il tempo
clàustro vomita in sé la vita persa
d’un malinconico sorriso,
d’un lungo addio come le notti che d’estate
indarno ho rivagato alla memoria triste
cui provvede solo morte a consolare.
E tale mi feriva un pianto,
un richiamo fremente ancora di pioggia
attraverso i vetri dell’esanime mio cuore,
come di campi lontanissimi
ormai d’un tetro ricordo immaginario,
roco lamento che giammai mi paga.
Tutto era chiaro ormai,
solitudine d’un lago già stracolmo ed inevaso,
un grido solamente d’animale fèro a morte,
lacero e ferito, attraverso la miseria
d’un percorso inesitato io
non posso essere felice.
Chè il cuor mi nega tutto, ormai la morte
ha deriso ogni speranza, ogni minima gioia.
Ah, già, l’Amore?
E invece d’Amor privo per sempre
Attendo sempre all’opera inesatta.
Amore mio, perché la morte non mi paga?

 
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